Ilena
racconta... (al Giornale delle buone
notizie)
Caro Direttore, come promesso sono di nuovo
qui a scrivere della mia esperienza
emiliana, anche se questa volta è molto più
difficile raccontare: pensavo di essermi
ormai abituata, di essere come
anestetizzata, in realtà ogni volta che
torno là è sempre più difficile raccontare
le emozioni provate. Sabato 23 giugno, la
mia nuova destinazione è stata Mirandola, la
tendopoli gestita dalla Protezione Civile
della Valle d’Aosta in Via Toti: lì opera
un’associazione, Scuola di Pace, che si
occupa di bambini, in particolar modo, di
farli divertire e giocare anche nelle
situazioni più terribili e ti assicuro che
la vita in tendopoli è una di queste. Vorrei
raccontarti le storie di questi bambini,
descrivere i loro volti, tratteggiare i
caratteri di ognuno di loro, ma la mia
morale me lo impedisce, perché mi
sembrerebbe di violentare la loro innocenza.
Posso soltanto dire che lavorare con loro è
stato, oltre che divertente, un grande
sollievo: i piccoli non sono affatto
traumatizzati, ridono, si divertono e
litigano come tutti i bambini di questo
mondo, sembra quasi che per loro sia un
gioco, una lunga vacanza in campeggio. Per i
loro genitori non è così: tristezza e
disperazione si leggono nei loro occhi, mai
abbandonati, però, dalla grande voglia di
fare, di ricostruire, di rinascere. La vita
in tendopoli, che io ho sperimentato per
soli due giorni, non è per niente semplice:
tende che, nonostante i condizionatori,
raggiungono temperature di 30°C, bagni e
lavatrici in comune, un enorme tendone
adibito a mensa, la mancanza di libertà
nello scegliere le cose più banali della
vita, come l’ora dei pasti, il menu di ogni
giorno, il programma da guardare in tv.
Inoltre, la convivenza con persone di altre
nazionalità e religioni, in spazi così
ristretti e comuni, diventa oltremodo
pesante, non certo per razzismo, ma proprio
per la differenza di cultura e di abitudini.
Il tempo per gli adulti scorre monotono, fra
un turno di pulizia, una partita a carte o
quattro chiacchiere su una panchina; i più
fortunati che non hanno perso il lavoro
ringraziano il cielo in continuazione, ma
ammettono l’enorme difficoltà di tornare la
sera, stanchi, in una tenda e da lì
ripartire l’indomani mattina. Intorno alla
tendopoli, la città è pressoché deserta: il
centro è ancora transennato, quasi tutti i
negozi sono chiusi, il silenzio surreale è
rotto dal via vai dei Vigili del Fuoco che
lavorano incessantemente per la messa in
sicurezza degli edifici e fanno la spola fra
le tende e il centro cittadino, per
accompagnare le persone a recuperare i
propri effetti personali nelle case
inagibili. Nella campagna circostante,
baciata da un sole rovente, si susseguono
tendopoli autogestite: persone che si
riuniscono e si accampano vicino alle
proprie case, ai cascinali dove conservano
gli attrezzi agricoli, ai propri campi e
animali. È in una di queste tendopoli, in
località Gavello, che ho passato la notte,
insieme a fortuiti ma speciali compagni
d’avventura. La tendopoli è composta da una
sessantina di persone, per lo più anziani,
accampate nei pressi di un campo di calcio;
chi non ha più il lavoro accudisce gli
anziani e i bambini, pulisce e cucina per
gli altri. Nonostante essi non ricevano
alcun aiuto ufficiale, solo quello di
volontari autonomi che giungono qui da ogni
parte d’Italia con acqua, cibo e generi di
prima necessità, preferiscono vivere così,
insieme ad amici, parenti e conoscenti,
piuttosto che condividere gli spazi con
estranei. Ci offrono la cena e ci permettono
di accamparci in mezzo alle loro tende, dopo
averci deliziato con una perfetta serata
emiliana, a suon di liscio. Ed è così che
passiamo la notte, fra risate, chiacchiere e
poche ore di sonno. La domenica mattina, io
e Marika, l’altra volontaria, siamo di nuovo
dai nostri bambini, per farli giocare e
divertire, per far passare loro un tempo
che, senza i mezzi di divertimento dei
ragazzini di oggi, risulta essere
estremamente noioso. Il desiderio più
ricorrente riscontrato è quello del mare e
perciò dipingiamo un cartellone di azzurro e
ci incolliamo pesci, conchiglie, alghe,
coralli e barchette, ritagliati da
cartoncini colorati: il mare di Via Toti
troverà il posto su una parete della mensa
comune della tendopoli. Arrivata l’ora della
partenza, i ragazzini sono tutti a riposare
nelle tende: non li cerco, per evitare di
scoppiare in lacrime davanti a loro.
Abbraccio Marika e parto alla volta di casa.
Dopo poco più di due ore, girata la chiave
del portone, trovo il mio letto, il mio
bagno, un bicchiere di acqua fresca: cose
banali per la maggior parte di noi, ma che
in questo momento non lo sono per 15.000
italiani. Non mi chiedere cosa mi spinge ad
andare là, non lo so, forse l’educazione
ricevuta, incentrata sull’aiuto di chi ha
più bisogno, forse la consapevolezza di
essere stata nella mia vita più fortunata di
molti altri, forse l’egoismo del volermi
sentire utile: so solo che tornerò presto
fra le “adorabili canaglie” di Via Toti.
Ilena Ieri
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