Scrive Alessandra sulla
rivista Il Mulino
Amin ha undici anni, fa la quinta e vive nel
campo gestito dalla protezione civile della
Valle d’Aosta a Mirandola, in via Enrico
Toti. Parla italiano con un inconfondibile
accento emiliano, ed è il più grande di tre
fratelli. Gli altri sono Madi e Wassem. A
cena mi spiega che loro sono musulmani e
quindi non mangiano il prosciutto, il salame
e, ci tiene a precisare, lo strutto. Siamo
nel Nord. A Roma nessun bambino musulmano
sottolineerebbe che non mangia lo strutto.
In realtà, se non me l’avesse detto, non
avrei mai pensato che è nato a Tunisi. Ha la
maglia numero dieci di Alessandro Del Piero,
e stasera è un po’ arrabbiato perché io e la
mia amica domani partiamo. Quando siamo
arrivate i bambini sono venuti a salutarci.
Siete le volontarie nuove? E quanto
rimanete? La prima mattina abbiamo disegnato
tutti insieme un cartellone per la caccia al
tesoro, poi abbiamo truccato le femmine con
la porporina - santa porporina regina delle
bambine di tutti i tempi e di tutte le
etnie. Il pomeriggio abbiamo sfoderato dal
cilindro un gioco degli anni Settanta. Lo
conoscete Un due tre stella? La mia amica mi
ha guardato e la sua faccia è stata
espressiva: «Sono musulmani, sono nati dieci
anni fa in Nord Africa e secondo te
dovrebbero conoscere Un due tre stella?».
«Ehm… Allora, bambini, uno si gira contro il
muro, dice ad alta voce “uno, due, tre,
stella!”, poi si volta verso gli altri, che
intanto camminano nella sua direzione. Se ci
vede muoverci, dobbiamo tornare indietro e
ricominciare dall’inizio. Chiaro?».
Capiscono tutti, anche quelli che non
parlano italiano. È andata, penso io. Gli
anni Settanta non sono poi così male. Nel
campo Valle d’Aosta vivono trecentotrenta
persone: molti sono italiani del Sud che
parlano una strana lingua emiliana. Se ci
fai caso senti l’influsso calabrese o
pugliese. Duecentosettanta sono tunisini,
marocchini, indiani, cingalesi. Erano quelli
che abitavano nei locali più antichi di
Mirandola, i primi a risultare inagibili.
Non hanno amici e parenti come i tanti
emiliani che hanno lasciato la casa perché
inabitabile o perché hanno paura di
tornarci. Alcuni parlano perfettamente
italiano, altri no. Alcuni ti ringraziano
ogni dieci minuti, come la mamma di Amin;
altri nemmeno ti salutano e ti osservano
perché sei una donna, porti una maglietta
scollata con 35° e hai i capelli scoperti.
Litigano per i turni delle pulizie, perché
fa caldo in tenda e sono nervosi, perché
sono stufi di mangiare cose italiane, perché
un bambino ha rubato le bolle di sapone che
hai dato al figlio e ora non sa con cosa
giocare e piange disperato. Litigano perché
i volontari della protezione civile provano
a spiegare ai più piccoli che i guanti di
plastica non servono per fare i palloncini
d’acqua, ma per pulire i tavoli della mensa.
Anche i volontari sono qui dal 20 Maggio.
Hanno montato le tende, i bagni e la mensa e
stanno affrontando l’emergenza
quotidianamente. Ieri Luca, l'elettricista,
un gigante buono tutto tatuato, ha
installato cinquanta condizionatori, quasi
uno per tenda. Il cuoco mi ha raccontato che
non si ferma dalla scorsa settimana, dice
che nessuno lo ringrazia e addirittura c’è
chi protesta perché non vuole mangiare la
pasta. C’è Giovanni, un ex carabiniere che
gira per il campo, dorme tre ore per notte e
quando gli abbiamo chiesto se è pericoloso
dormire da sole nel camper della Scuola di
pace, l’associazione di volontariato sociale onlus e attività complementari alla protezione civile che ci
ospita, mi ha guardato e mi ha detto: «Ci
siamo noi». Gente che lavora: elettricisti,
operai, meccanici. Sono stati tutti in
Abruzzo nel 2009 e oggi ricordano
quell’esperienza. Anche nel campo di piazza
d’Armi a L'Aquila faceva il caldo torrido di
questi giorni. Lì, però, si mobilitarono i
clown dottori, gli psicologi, i volontari
dei partiti politici, le associazioni
cattoliche e i parrucchieri per l’Abruzzo:
insomma, la cosiddetta società civile che
qui non si vede. Mi hanno detto che ci sono
gli scout nel campo Friuli 1 e che a Finale
c’è la Caritas. Ma gli altri? E la copertura
mediatica dei primi giorni? Forse siamo meno
presenti perché immaginiamo gli emiliani
produttivi, efficienti e capaci di
ricominciare senza aspettare interventi
speciali. O forse perché le istituzioni
locali hanno una fama diversa e decisamente
migliore di quelle abruzzesi. Nei tempi
difficili in cui viviamo vogliamo credere
che non dovremo temere l’ennesimo caso di
cattivo uso di soldi pubblici o di cinica
strumentalizzazione politica. Vogliamo
pensare che il terremoto emiliano non sarà
un’occasione per farci sentire ancora una
volta più corrotti degli altri. O forse
siamo meno presenti semplicemente perché
siamo meno disponibili e più preoccupati per
noi stessi di quanto eravamo nel 2009.
Certo, qui in Emilia il terremoto non ha
buttato giù una città intera e non ha fatto
trecento morti come in Abruzzo, ma stasera,
a Mirandola, per le strade non c’è nessuno e
gli emiliani sembrano molto soli. Come i
volontari della protezione civile; come i
residenti del campo Valle d’Aosta, che hanno
voglia di raccontare che cos'è successo e
dov’erano il 20 e il 29 maggio; come Amin,
che ha la maglia numero dieci di Del Piero e
prende in giro il mio accento romano.
Alessandra Tarquini
|