bambina immigrata (Italia)
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Dicembre 2010
Le storie dei piccoli immigrati rinchiusi nel centro di accoglienza
LAMPEDUSA - Il suo nome adesso è un numero. E lui è felice come non lo è
stato mai. Finalmente è in Italia. Dietro le sbarre segna i suoi
pensieri su un foglio: "Qui comincia la mia nuova vita". Il numero 17
del secondo sbarco del 22 giugno 2008 è Dell, un ragazzino di quindici
anni del Ghana. L'hanno raccolto in mare che era svenuto, su un gommone
venuto dall'altra parte del mondo. "Posso solo ringraziare Dio che mi ha
portato in Italia dove potrò andare a scuola, ricevere un'educazione e
dove la sfortuna non mi perseguiterà più", scrive Dell nei suoi appunti.
Isola di Lampedusa, sull'estremo confine meridionale d'Europa si
inseguono i sogni dei ragazzi approdati come naufraghi e clandestini.
Nelle camerate di quel ricovero forzato che è il "centro di accoglienza"
- la loro prima casa, guardati a vista dai carabinieri, curati e sfamati
da instancabili volontari - i quaderni di adolescenti e bambini si
riempiono di speranze. Molti sono neri, alcuni mediorientali, c'è anche
qualche magrebino. Sono tutti rinchiusi in un recinto in mezzo alle
campagne, in attesa del loro destino sopravvivono con quel "numero
identificativo" della polizia di frontiera.
Numero 71 del quarto sbarco del 20 giugno: è Jude, diciassette anni,
nigeriano. Numero 34 del secondo sbarco del 21 giugno: è Appiah,
diciotto anni, ghanese. Numero 15 del primo sbarco del 22 giugno: è
Karim, sedici anni, palestinese. Numero 36 del secondo sbarco del 20
giugno: è Falis, sedici anni, somala.
Sono i "piccoli uomini" e le "piccole donne" che depositano i loro
desideri su un foglio di carta. Sono le loro prime emozioni dopo
l'attraversamento del Mediterraneo. È il loro primo diario in terra
straniera.
Una pagina a quadretti, qualche scarabocchio con la matita e poi sei
righe in arabo. È la testimonianza di Diaa Mohamed Hassan, sedici anni.
È il numero 1 del primo sbarco del 22 giugno. Scrive: "Sono uscito dal
mio paese che è la Tunisia, sapevo che il viaggio sarebbe stato molto
lungo e molto pericoloso ma ho deciso di partire lo stesso per avere di
più, per avere di meglio dalla vita. Vorrei fare il meccanico. O anche
l'elettrauto. Sono mestieri che ho imparato nel mio paese vicino a
Tunisi. Ringrazio il popolo italiano e ringrazio Allah". Il numero 18
del terzo sbarco del 21 giugno è arrivato con tre amici, hanno tutti
diciassette anni. Per quattro mesi hanno risalito l'Africa sui camion e
a piedi, passando dalla Nigeria e dall'Algeria. Poi si sono imbarcati in
Libia. I suoi appunti sono in inglese: "Vorrei diventare uno studente,
vorrei avere un futuro di successo in Italia... il mio nome è Seth Boafo...
Ghana, West Africa...".
Il numero 36 del quarto sbarco del 22 giugno è una ragazza somala nata
nel 1993 a Mogadiscio. La sua è una lettera lunga scritta nella sua
lingua, la grafia è elegante e ordinata: "Ancora non ci credo di essere
davvero arrivata in Europa, in un posto ricco come l'Italia. Non voglio
mai più tornare in Africa, non voglio mai più fare la vita che ho fatto.
La vita a Mogadiscio era più brutta e rischiosa del viaggio nel deserto
e poi per mare. Per questo me ne sono andata via dalla Somalia, io sono
Falis Abdullah Mohem e sono sola".
Il disegno è di una bambina di sette anni. Anche lei è somala. Si chiama
Cadeej. È arrivata con la madre e due sorelline. Colora di blu il tetto
di una casa, fa lo schizzo di un leone e poi di una farfalla. Sul foglio
che ha riempito c'è una bandiera somala, c'è un autobus. E c'è anche un
elicottero, forse quello che Cadej ha visto abbassarsi sul suo gommone
quando al largo l'hanno avvistata e trascinata fino ai moli di
Lampedusa. Su un'altra pagina bianca, la bimba scrive all'infinito il
suo nome: "Cadeej, Cadeej, Cadeej, Cadeej.... ".
Ancora un disegno, un'altra bambina. È Jamila, otto anni, sbarcata
l'altra notte con sei fratellini, la mamma e due zie. Prova a tracciare
i contorni di un cuore rosso che racchiude la figura di una ragazza
bionda. Ritrae Grazia che le sorride sempre e accarezza la sua
testolina. Grazia, una delle mediatrici culturali del "centro di prima
accoglienza" dove è finita anche lei.
Jamila e le altre bimbe.
Sono tutte in quello che lì dentro chiamano "il container delle donne e
dei minori". È una palazzina bianca sulla destra, appena si supera il
cancello con la garitta e i carabinieri. Poi c'è "il container delle
famiglie", un altro prefabbricato sulla sinistra, vicino a un piccolo
parco giochi per i bimbi più piccoli. E poi un altro cancello, uno
sbarramento, grate, un camminamento laterale, un altro sbarramento
ancora e un altro grande recinto. È il posto degli uomini. I neri da una
parte, i marocchini e i palestinesi e gli egiziani dall'altra.
Dopo il mare piatto dell'ultima settimana il "centro di prima
accoglienza" di Lampedusa è strapieno. Di posti ne ha poco più di 800 ma
alle nove del mattino del 23 giugno i clandestini stipati lì dentro sono
1005: 820 maschi, 121 femmine, 15 minori "accompagnati" e 49 minori "non
accompagnati". Al tramonto diventano 1349. Le donne africane avvolte
nelle loro vesti colorate sono fuori nel cortile, sdraiate sui
materassi. Ridono, annodano una all'altra i capelli in lunghe treccine.
Gli uomini sono ammassati oltre le sbarre, gli asciugamani in testa per
ripararsi dall'ultimo sole, panni stesi sulle inferriate. I ragazzini
nelle loro camerate scrivono.
Il nigeriano Jude è un orfano: "L'Italia è la mia nuova casa". Il
palestinese Tamer viene da Ramallah: "Il mio paese è in guerra da
tantissimi anni, mia madre mi ha spinto ad andare via e non tornare più
in Palestina, anche se per ora sono finito in questo posto pieno di
barriere sono convinto che qui in Italia troverò la pace". Saida è di
Marrakech: "Ho fatto un giro lungo per raggiungere Tripoli dal Marocco,
poi i libici ci hanno mandato qua. Voglio fare la cuoca in Sicilia dove
mi aspettano tanti amici". Il ghanese Bende, nato il 6 maggio 1991, non
conosce ancora nessuno da questa parte del Mediterraneo ma è sicuro di
quello che troverà: "Per me il popolo italiano è il migliore del mondo".
C'è chi sogna la nuova vita e chi ricorda quella vecchia. Come Tez,
eritreo di diciassette anni. I suoi sentimenti sono divisi fra il
passato e il futuro. Scrive: "Sono nato ad Asmara, ho lasciato da solo
il mio paese dove ancora vivono i miei genitori, due fratelli e quattro
sorelle. Sono un cristiano pentecostale, ho sempre frequentato la chiesa
e sono stato un membro attivo della mia congregazione. Purtroppo là, in
Eritrea, soffrivamo di discriminazioni da parte degli abitanti del
nostro villaggio perché facevamo parte di una corrente cristiana
diversa... il peggio è successo nel 2002, quando il nostro governo ha
cominciato la persecuzione contro la mia setta... pregavamo di
nascosto".
È la cronaca di un calvario religioso: "Durante una di quelle preghiere
sono arrivati i poliziotti, ci hanno messi in prigione. Ci hanno
accusati di essere spie e cospirare con i paesi occidentali contro il
governo eritreo, ci picchiavano, ci torturavano. Per fortuna la mia
famiglia conosceva un commerciante che portava cibo alla prigione col
suo camion, è riuscito a farmi evadere e mi ha accompagnato fino in
Sudan dove ho continuato il mio viaggio verso la Libia...".
La traversata di Tez è durata cinque giorni e cinque notti. Al timone
c'era uno di loro, un altro eritreo che non sapeva dove puntare la prua
del gommone. Erano senza bussola e senza acqua. Tez è sbarcato con le
gambe bruciate dalla benzina mischiata alla salsedine. "Ora voglio stare
per un po' in Italia ma il mio desiderio è di andare in Inghilterra,
vivere e mettere su famiglia a Londra".
Tez, il numero 42 del quarto sbarco del 22 giugno 2008.
(Oltre la Provincia : BG
- ha collaborato
Khalid Chaouki)
apri un'altra casella del
calendario dell'avvento
L'AMORE al tempo del COLERA è stato il
tema del Calendario dell'Avvento 2010
sul sito internet
http://www.stellacometa.biz/
Nel calendario dell'Avvento di quest'anno
abbiamo narrato la distanza che c'è tra chi
soffre, e avrebbe
bisogno di un dono, e chi potrebbe
avvicinarsi e donare qualcosa di se.
Il COLERA è
DAPPERTUTTO... e solo l'AMORE potrà
vincerlo!
Il nostro viaggio attraversa, casella per casella di questo particolare
"calendario dell'avvento", le sofferenze nelle situazioni dove ci sono
state guerre, calamità naturali, emigrazioni, emarginazione, mancanza di
pace...
In tutti questi scenari l'amore si è manifestato in una mano che si
porge con semplicità verso l'altro, nell'aiuto, nel restare vicini anche
nel pericolo, nella forza, nella serenità, nella dignità di chi, pur non
avendo nulla, ha più da offrire di chi è pieno di beni materiali.
La Scuola di Pace - Roma
Haiti è da sempre l'isola della libertà e
dell'amore,
e per questo da sempre impoverita e
soggetta ad ingiustizie e violenze.
Dopo il terremoto e i cicloni, ora il Colera.
Il Colera e la Collera non rappresentano però l'anima
del popolo di Haiti,
e il Calendario dell'Avvento 2010 affronta per questo un viaggio molto difficile...
alla
ricerca dell'amore perduto...
per far rinascere lo
spirito del Natale in una umile capanna ad Haiti.
Il Calendario
è collegato al progetto Haiti
Emergency
per portare un AIUTO CONCRETO ai BAMBINI di
HAITI.
aiuta i bambini di Haiti, visita il sito:
www.haitiemergency.org
I Calendari dell'Avvento degli anni passati
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Il Calendario dell'Avvento 2008 |
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associazione di volontariato sociale onlus e attività complementari alla protezione civile
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